Perché in acqua? Interazioni con le terapie a secco

La risposta alla domanda “Perché in acqua?” è semplice e complessa nello stesso tempo. Si potrebbe semplicemente rispondere: “Perché ciò che conta è l’esercizio”.

Se accettiamo l’idea che gli effetti contesto-dipendenti dell’acqua, per quanto clamorosi, non sono effetti terapeutici e se riteniamo che per effetto terapeutico si possa intendere la modificazione stabile nel tempo di un pattern di movimento, allora non possiamo che immaginare ciò che in realtà avviene dove si lavora con criterio e cioè che il percorso riabilitativo, almeno nella sua parte medica, si compone di una serie di esercizi che scaturiscono dalla sequenza: valutazione riabilitativa definizione degli obiettivi a breve e lungo termine progetto riabilitativo valutazione in funzione del trattamento programma riabilitativo trattamento verifica e registrazione dei risultati ottenuti.

La sequenza sopra indicata non è rigidamente lineare, ma è, o può essere, ricorrente per consentire aggiustamenti nella definizione degli obiettivi e del programma in corso d’opera sulla scorta dei risultati parziali ottenuti.

In un’ottica di questo tipo, l’acqua è una delle risorse disponibili e, come tutte le risorse, va usata con criteri di efficacia e di economicità. L’acqua è uno dei contesti in cui avviene la terapia, ma il cuore della terapia è l’esercizio, non l’acqua, e il sapere di riferimento è quello riabilitativo molto di più di quello idrologico.

Costruire il “metodo dell’acqua” è concettualmente sbagliato, mentre ha senso declinare secondo le caratteristiche specifiche del contesto acquatico – che vanno ben conosciute dagli operatori che utilizzano l’acqua – gli obiettivi e le strategie impostate nella valutazione iniziale.

Un’altra grave conseguenza dell’utilizzo dell’acqua come metodo riguarda la ricerca clinica in riabilitazione: chi è troppo motivato dall’appartenenza a una scuola di pensiero, a una corrente, a una posizione epistemologica facilmente finisce per valutare la qualità di ciò che fa più come coerenza con il metodo che come efficacia dell’esercizio e a utilizzare sistemi di riferimento e di misura interni al metodo stesso e, quindi, tautologici e non validi dal punto di vista scientifico, poiché infrangono le premesse sia della massima obiettività possibile, sia la riproducibilità dell’esperimento, sia della falsificazione dell’ipotesi.

 

John Whyte, nel suo famoso articolo del 1994 (“Toward a methodology for rehabilitation research”) ha messo molto bene in evidenza il rapporto che esiste tra patologia, impairment, disability e handicap e la coerenza che deve esistere tra il livello a cui pone l’intervento da studiare e quello a cui si pone la misura del risultato da utilizzare.

Noi stessi fisioterapisti riabilitatori spesso violiamo questa regola, quasi che potesse essere definito un intervento specifico più sulla base della diagnosi di patologia (l’emiplegico, ma anche il neurologico) piuttosto che sulla base della valutazione il più precisa possibile degli altre tre livelli, accettando la frustante ma inevitabile consapevolezza che quanto più ci avviciniamo alla cosa che ci interessa di più (l’handicap) tanto meno i nostri sistemi di misura sono precisi, accurati e condivisi.

Sempre nel 1994 Paolo Crenna insieme ad altri Autori pubblicava i risultati della sua ricerca sui fattori fisiopatologici che contribuivano all’alterazione del cammino in pazienti affetti da esiti di lesioni sopraspinali. Questo lavoro, che purtroppo non ha avuto un grande seguito, ha in realtà suscitato un notevole interesse negli operatori della riabilitazione, proprio perché arrivava a identificare e misurare in modo abbastanza preciso alcuni elementi assai più significativi della diagnosi di patologia per definire il programma riabilitativo.
Conoscere il peso relativo di fattori come la spasticità, la co-contrazione, la stiffness non neurale e il reclutamento muscolare è assai più interessante e più utile per definire l’esercizio da proporre che non la diagnosi di patologia.
Anche per chi non abbia a disposizione strumentazioni sofisticate come la gait analysis, il lavoro di Crenna è estremamente interessante se ci si sforza di correlare l’osservazione del paziente e i compensi che spontaneamente utilizza con i criteri del profilo fisiopatologico.

Il risultato che ci si può aspettare da un lavoro di questo genere è l’evidenza, nella cartella clinica come nel lavoro in palestra o in piscina, di una corrispondenza stretta tra i singoli elementi della valutazione e i singoli elementi del piano di lavoro, cioè le sequenze di esercizi volte a raggiungere gli obiettivi a breve termine.

Ciò è tanto più importante nei pazienti gravi (come gli esiti di coma prolungato) nei quali spesso proprio con il pretesto della gravità si rischia di cadere nella genericità.

L’interazione tra terapie rieducative a secco e in acqua

La comparabilità dei risultati tra acqua e terraferma è legata alla valutazione in funzione del trattamento, cioè a quell’operazione logica che permette di “tradurre” nel linguaggio dell’acqua gli effetti provocati dalla lesione sulla postura e sul movimento che sono diversi (in virtù degli effetti del contesto) tra i due ambienti.

Il terapista che lavora in acqua declinerà gli obiettivi e le strategie definiti nella valutazione iniziale (che avviene ovviamente fuori dall’acqua) secondo il “linguaggio dell’acqua” e definirà sequenze di esercizi sulla base di questa valutazione.

In questo modo possiamo aspettarci di integrare secondo una logica unitaria la parte di lavoro fatta nell’acqua e quella fatta fuori e di poter misurare come miglioramento della funzione sulla terraferma anche il lavoro fatto in acqua.

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